di Toni Balbo
Ultimamente ho letto un bel libro dal titolo “Prima lezione di storia moderna” di Giuseppe Galasso, edito da Laterza & Figli. Vi voglio proporre un paio di pagine che mi sembrano significative.
“No documents, no history, si potrebbe dire, e a molto migliore ragione, parafrasando un noto slogan pubblicitario. Il passato, si dice, è un non più. Alcuni ne parlano come di un’assenza. In realtà, non si tratta né di qualcosa che non è più, né di un’assenza. Si tratta semplicemente del passato, cioè di vicende umane che hanno avuto luogo e che noi, secondo le nostre possibilità, vogliamo o dobbiamo rievocare. E le rievochiamo perché ne sentiamo oggi il bisogno, e ciò significa che il passato in qualche modo, in qualche misura, è ancora con noi; e che presso di noi la sua non è la presenza di un’assenza, ossia di qualcosa che non c’è, bensì la presenza di un elemento di cui avvertiamo la sollecitazione. Il lavoro degli storici è, appunto, quello di giungere a una rievocazione la più piena possibile di quel passato. Come?
Servendosi, si può subito rispondere, di tutte le tracce che il passato lascia di sé, del suo operare e del suo pensare, sentire e, insomma, di tutta la sua vita materiale e morale. Per lunga tradizione il lavoro storico ha privilegiato in modo quasi esclusivo le tracce scritte del passato, ossia documenti pubblici e privati, libri e scritture di qualsiasi genere, iscrizioni o epigrafi su tombe, monumenti, pietre miliari, o sugli “avanzi” (come pure si dice) in qualsiasi altro modo giunti fino a noi. Poi è stato a giusta ragione osservato che i documenti e le tracce del passato non sono affatto limitati alle scritture, quali che esse siano, ma che anche le opere d’arte, gli utensili, le produzioni dell’artigianato, i capi di abbigliamento e di arredamento, gli arnesi di lavoro, gli oggetti preziosi, una tavoletta votiva e, quindi, ogni altro oggetto o cosa che ci sia pervenuta, è una traccia di quel passato. Né basta: leggende, tradizioni, credenze, la struttura delle lingue, i modi di dire, la fisionomia del paesaggio urbano e non urbano, le pratiche produttive della vita economica, i resti organici e fossili di qualsiasi tipo, i mutamenti climatici in quanto ricostruibili sono diventati via via documenti storici non meno rilevanti di qualsiasi scrittura. L’archeologia, la linguistica, lo studio dell’immaginario, la storia della tecnica e varie altre discipline hanno contribuito, così, a un provvidenziale allargamento della documentazione storica. Si sono messe a punto tecniche molto sofisticate per individuare la data e l’autenticità, oltre che la natura e il significato, dei documenti storici. Si sono studiate le maniere migliori non solo di rintracciare tali documenti, ma anche di conservarli.
Nell’ampiezza, praticamente illimitata, assunta dal tipo di documentazione a cui rifarsi per gli studi storici, la documentazione scritta ha conservato, tuttavia, una certa preminenza. Questa preminenza ha diverse ragioni. La principale è certamente che la scrittura offre una espressione solitamente diretta e immediata di quanto con essa si vuole attestare, ricordare, disporre, affermare o negare, modificare o revocare, e insomma stabilire a futura memoria o per le esigenze più o meno urgenti del presente. È come se, essendo stata il primo mezzo di comunicazione consapevolmente usato per scrivere di storia, la scrittura conservasse una sorta di diritto di primogenitura anche dopo che la tipologia delle fonti storiche è diventata tanto più ampia e diversificata”.
Non si può che concordare con il Galasso, osservando che le cose scritte a futura memoria, soprattutto se stampate sulla carta, conservano anche tutti gli errori in esse contenuti.
Mi è capitato recentemente di leggere che i Marchesi di Monferrato sarebbero stati i primi feudatari di Leinì. Se il Marchese potesse, oltre che rivoltarsi nella tomba, saltare fuori dalla fossa in cui giace, passerebbe in un baleno a fil di spadone l’autore di una simile fesseria!