Leinì nel 1925 (circa)

di Toni Balbo

Dalla fotografia aerea del comune di Leinì, eseguita dal XIII stormo, 43° Gruppo, aeroplani da bombardamento nell’anno 1925 (circa), ho estrapolato due particolari:
– il primo riguarda la zona della stazione, dove si notano la presenza del belvedere (cocolin) e una stesa di tovaglie e lenzuola di un lavandaio;
– il secondo l’incrocio fra via Torino e via Dei Paschi, dove sono immortalati tre lavoranti nell’atto del taglio del grano.

La “stazione”
Il taglio del grano (clicca sopra per ingrandire)

La borgata Raviolo di Leinì

di Toni Balbo

Osservando il reticolo centuriale di Leinì, risalente al primo secolo avanti Cristo, nel tratto della borgata Raviolo, situata alla confluenza fra via Carrera e via Del Padre, risaltano alcune particolarità.
Sulla carta francese del 1810 ~, la località è denominata Les Croset. Il toponimo è stato sicuramente indicato da persone abitanti del luogo, da ritenersi perciò di antica memoria.
La sua posizione è situata all’incrocio fra un cardo e un decumano che delimita le centurie della zona.
Croset (pron. crusèt) in piemontese è un cognome, Crosetto (esistente quasi solo in provincia di Torino) e può derivare proprio dal fatto che in origine abitavano presso quell’incrocio.
Attenzione, queste che sto facendo sono supposizioni, ma l’assonanza dei termini, il toponimo e la prossimità dell’incrocio tracciato dai Romani, provocano delle forti coincidenze.

Il reticolo delle centurie è segnato in blu.

Un’altra particolarità si osserva rispetto all’orientamento dei fabbricati più antichi situati fra la borgata Raviolo e il cimitero. Sono quasi tutti disassati rispetto al fronte strada di via San Francesco al Campo. Ma se tracciamo il decumano di quella zona, le case come d’incanto risultano essere tutte ortogonali ad esso.
Sicuramente le case non sono antiche di millenni, ma questo fatto può voler dire che la strada centuriale originaria possa essere stata presente fino a qualche secolo fa.

Il decumano è tracciato in rosso

Sulla storia (anche di Leinì)

di Toni Balbo
Ultimamente ho letto un bel libro dal titolo “Prima lezione di storia moderna” di Giuseppe Galasso, edito da Laterza & Figli. Vi voglio proporre un paio di pagine che mi sembrano significative.
No documents, no history, si potrebbe dire, e a molto migliore ragione, parafrasando un noto slogan pubblicitario. Il passato, si dice, è un non più. Alcuni ne parlano come di un’assenza. In realtà, non si tratta né di qualcosa che non è più, né di un’assenza. Si tratta semplicemente del passato, cioè di vicende umane che hanno avuto luogo e che noi, secondo le nostre possibilità, vogliamo o dobbiamo rievocare. E le rievochiamo perché ne sentiamo oggi il bisogno, e ciò significa che il passato in qualche modo, in qualche misura, è ancora con noi; e che presso di noi la sua non è la presenza di un’assenza, ossia di qualcosa che non c’è, bensì la presenza di un elemento di cui avvertiamo la sollecitazione. Il lavoro degli storici è, appunto, quello di giungere a una rievocazione la più piena possibile di quel passato. Come?
Servendosi, si può subito rispondere, di tutte le tracce che il passato lascia di sé, del suo operare e del suo pensare, sentire e, insomma, di tutta la sua vita materiale e morale. Per lunga tradizione il lavoro storico ha privilegiato in modo quasi esclusivo le tracce scritte del passato, ossia documenti pubblici e privati, libri e scritture di qualsiasi genere, iscrizioni o epigrafi su tombe, monumenti, pietre miliari, o sugli “avanzi” (come pure si dice) in qualsiasi altro modo giunti fino a noi. Poi è stato a giusta ragione osservato che i documenti e le tracce del passato non sono affatto limitati alle scritture, quali che esse siano, ma che anche le opere d’arte, gli utensili, le produzioni dell’artigianato, i capi di abbigliamento e di arredamento, gli arnesi di lavoro, gli oggetti preziosi, una tavoletta votiva e, quindi, ogni altro oggetto o cosa che ci sia pervenuta, è una traccia di quel passato. Né basta: leggende, tradizioni, credenze, la struttura delle lingue, i modi di dire, la fisionomia del paesaggio urbano e non urbano, le pratiche produttive della vita economica, i resti organici e fossili di qualsiasi tipo, i mutamenti climatici in quanto ricostruibili sono diventati via via documenti storici non meno rilevanti di qualsiasi scrittura. L’archeologia, la linguistica, lo studio dell’immaginario, la storia della tecnica e varie altre discipline hanno contribuito, così, a un provvidenziale allargamento della documentazione storica. Si sono messe a punto tecniche molto sofisticate per individuare la data e l’autenticità, oltre che la natura e il significato, dei documenti storici. Si sono studiate le maniere migliori non solo di rintracciare tali documenti, ma anche di conservarli.
Nell’ampiezza, praticamente illimitata, assunta dal tipo di documentazione a cui rifarsi per gli studi storici, la documentazione scritta ha conservato, tuttavia, una certa preminenza. Questa preminenza ha diverse ragioni. La principale è certamente che la scrittura offre una espressione solitamente diretta e immediata di quanto con essa si vuole attestare, ricordare, disporre, affermare o negare, modificare o revocare, e insomma stabilire a futura memoria o per le esigenze più o meno urgenti del presente. È come se, essendo stata il primo mezzo di comunicazione consapevolmente usato per scrivere di storia, la scrittura conservasse una sorta di diritto di primogenitura anche dopo che la tipologia delle fonti storiche è diventata tanto più ampia e diversificata”.
Non si può che concordare con il Galasso, osservando che le cose scritte a futura memoria, soprattutto se stampate sulla carta, conservano anche tutti gli errori in esse contenuti.
Mi è capitato recentemente di leggere che i Marchesi di Monferrato sarebbero stati i primi feudatari di Leinì. Se il Marchese potesse, oltre che rivoltarsi nella tomba, saltare fuori dalla fossa in cui giace, passerebbe in un baleno a fil di spadone l’autore di una simile fesseria!

La genealogia dei Balbo di Leinì

di Toni Balbo

Dopo più di tre lustri sono riuscito, finalmente, ad ultimare la genealogia dei Balbo di Leinì.
La ricerca è stata lunga e faticosa, non solo nel reperimento dei dati ma anche nella interpretazione degli stessi.
La raccolta dei dati (nome e date di vita) è stata fatta nei cimiteri, negli archivi comunali e parrocchiali, negli atti testamentari, ecc. e mi sono limitato alla linea paterna.
Il loro ordinamento ha comportato la comparazione delle date ma anche dei nomi di battesimo, che sovente si ripetevano. Curiosi quelli di Francesco – fu Francesco – fu Francesco, o di Francesco sepolto come Giuseppe: “la moglie pose”!
Il cognome era Balbo, ma anche “detto Mossetto”, ma anche solo “Mossetto” o, per non sbagliare: “Balbo Mossetto”!
I rami dei Balbo di Leinì sono tre, ai quali ho dato il nome del luogo di residenza, cioè Palera, Roveglia e Verdiero (via Matteotti).
La comparsa del primo Balbo a Leinì è datata intorno al 1770 e proveniva da Volpiano.
Nell’archivio parrocchiale di Volpiano sono risalito fino al 1630; tra tutti i Balbo, l’antenato di quelli leinicesi è Balbo Mossetto Giovanni Domenico morto il 5 luglio 1747: “Raccomandabile Giovanni Domenico fu Giovanni, dei Balbo Mossetto, di questo luogo, quasi ottantenne (nato perciò nel 1667), pentito e munito di Eucarestia, è morto la notte precedente e oggi è stato sepolto nel cimitero parrocchiale maschile”. Proprio così, in quell’epoca, a Volpiano, neanche da morti i maschi potevano stare vicino alle femmine!
A questo punto bisognava fare l’albero genealogico, come farlo?
Intanto mi sono limitato al ramo della mia famiglia, quello di Roveglia, se no veniva troppo grande.
Ho preso una tavola di legno e ho disegnato i solchi che i miei antenati hanno lasciato nell’albero della vita, a sinistra la scala delle date dal 1630 al 2090, a destra le incisioni della lunghezza di vita con il nome di battesimo, un righello permette di conoscere le date di nascita e di morte di ognuno.
E adesso tocca ad altri riempire gli spazi lasciati vuoti.

Albero genealogico dei Balbo
Un particolare

La vegetazione nel territorio di Leynì

di Toni Balbo
Per gli appassionati di botanica segnalo un pregiatissimo lavoro svolto dai tecnici dell’Orto botanico di Torino fra il 1888 ed il 1913, data della sua pubblicazione. Si tratta della catalogazione di tutte (proprio tutte!) le piante spontanee e coltivate che sono state rilevate nel territorio di Leinì.

La vegetazione nel territorio di Leynì (Torino)
nei rapporti colla coltura agraria.
Memoria del Cav. E. FERRARI Conservatore del Regio Orto Botanico.
TorinoVincenzo BonaTipografo della Real Casa – 1913

Il catalogo floristico che forma oggetto di questa nota è stato redatto col duplice intento di presentare uno specchio, quanto più esatto possibile, di un tratto della pianura piemontese, il quale comprendesse i tipi principali di terreno che sono caratteristici del distretto Padano; e di mettere in evidenza quegli elementi floristici, sia spontanei che avventizi, i quali meritassero di essere conosciuti per la loro importanza pratica. Per far ciò era necessario sottoporre a ricerche condotte sistematicamente un distretto facilmente accessibile, e prolungare le indagini per un tempo abbastanza lungo da garantire, nei limiti del possibile, la completezza del censimento compiuto (1).
E pare a me che l’esame fatto ed il catalogo floristico raccolto del territorio del comune di Leynì rispondano a queste due condizioni.
(1) Le specie elencate nel presente catalogo furono raccolte da me e dal dott. cav. F. Vallino in una serie di erborizzazioni durate, si può dire, ininterrottamente dall’anno 1888 ad oggi, cioè per un periodo di circa ventiquattro anni.
I naturalisti dell’Istituto Botanico di Torino ed in particolar modo lo scrivente, possiedono poi, nel centro stesso della regione studiata, un collaboratore solerte ed un amico prezioso. Se infatti all’acume ed all’attività botanica del dott. cav. Filippo Vallino sono dovute le prime rivelazioni sull’interesse floristico della Vauda, al suo illimitato amore per la flora piemontese in genere e per quella in ispecie delle regioni ove da trent’anni esercita la sua nobile e caritatevole missione, nonché alla sua fraterna ospitalità per tutti i botanici che capitano a Leynì, è da farsi merito se il territorio del comune è stato, negli ultimi tre decenni, frugato con una minuzia, della quale probabilmente pochi distretti botanici possono vantarsi. E, come sempre, anche in questo caso la diligente ricerca ha trovato il suo premio in scoperte pregevolissime: principale fra tutto quella dell’Isoëtes Malinvernianum, che proprio nella Vauda di Leynì, fu raccolto per la prima volta fuori della sua stazione classica”.

Per ogni pianta viene citato il nome botanico, il luogo della sua presenza a Leinì e in altre località piemontesi. Eccone un esempio:
Osmunda regalis L. – var. Plumierii Tsch. – In un bosco lungo il canale verso la cascina Fugnole – Altre località Piemontesi: Givoletto lungo il Rio du Bat sopra La Cassa, Stupinigi a Parpaglia, Selve di Montenotte, Monte Bracco sopra Envie.
Alcune curiosità:
– vengono rilevate ben nove varietà di orchidee;
– 16 erano le piante considerate rare;
riassumendo, il totale delle specie raccolte nel territorio di Leinì sarebbe:

Classe

Specie n.

Varietà n.

Dicotiledoni

561

27

Monocotiledoni

171

13

Gimnosperme

1

0

Crittogame vascolari

17

2

Totali

750

42

L’unica pianta appartenente alla classe delle Gimnosperme (conifere) è lo Juniperus communis – volg. Ginepro – presente nei gerbidi della Vauda.
Questo lavoro di catalogazione è prezioso perché ci restituisce in modo scientifico l’habitat naturale del nostro comune a cavallo fra il 1800 ed il 1900, che è stato poi profondamente modificato dalle attività antropiche più recenti.
Molte piante non sono più presenti mentre molte altre sono state introdotte, le zone umide ricche di biodiversità, presenti grazie alle risorgive e ai fontanili, sono quasi scomparse, le falde acquifere superficiali si sono abbassate, l’inquinamento è cresciuto a dismisura, prosegue la morìa di alcune specie autoctone iniziata negli anni ‘60 con gli olmi, seguita dai noci e ora le robinie ed i ciliegi e … chissà quante altre.

La copertina del prezioso lavoro

Viaggio del migrante

di Toni Balbo
Un leinicese, emigrato a Los Angeles (California – Stati Uniti) nei primi anni del 1900, torna in Italia nel 1932 con il figlio per far visita ai parenti.
Del viaggio di ritorno in terza classe abbiamo il biglietto.
Il viaggio in nave da Genova a New York fu di sette giorni, con scalo a Villafranca (Nizza) e Gibilterra, e almeno altrettanti in treno da New York a Los Angeles.
La nave era il transatlantico Conte di Savoia costruito nel 1931/32, quasi gemello del “Rex detentore nel 1933 del Nastro Azzurro dell’Atlantico, riconoscimento che veniva attribuito alla nave passeggeri per il record di velocità media di attraversamento dell’oceano, in regolare servizio e senza scali di rifornimento” (da Wikipedia).

Il transatlantico Duca di Savoia

I passeggeri hanno diritto al trasporto gratuito di Kg. 100 di bagaglio (purché questo non superi il volume di mezzo metro cubo) a posto. L’eccedenza è tassata in base a tariffa approvata dalle competenti autorità”.
I passeggeri della terza classe dovevano presentarsi all’imbarco il giorno precedente la partenza.
Sulla nave il “computo dei posti” era stabilito dal Regolamento sull’Emigrazione: “Ragazzi fino ad un anno non compiuto gratis; da 1 a 5 anni non compiuti pagano un quarto di posto; da 5 anni a 10 non compiuti pagano mezzo posto; da 10 anni in avanti pagano posto intero”.
Anche il “trattamento di tavola” era stabilito dalla legge: ”Il trattamento minimo che il Vettore è tenuto a fare agli emigranti durante il loro soggiorno a bordo è costituito come segue:
Colazione – caffè o caffè-latte o tè e cioccolato – Burro e marmellata – Per le donne e i ragazzi, a richiesta, dovrà essere somministrato latte.
Pranzo e Cena – Una minestra (asciutta o in brodo), un piatto forte (carne, pesce o uova) con contorno, se la minestra è in brodo.
Di più in uno dei pasti sarà servita una porzione di verdura e nell’altro o formaggio o frutta, e in uno dei pasti la minestra potrà essere sostituita da antipasto, quando nell’altro pasto la minestra sia servita asciutta. Nei giorni festivi: o frutta all’altro pasto, o dolce.
Pane fresco a tutti e tre i pasti – Vino: un quarto di litro ai due pasti del giorno, colazione esclusa”.
Buon viaggio!

Il biglietto del viaggio (clicca per ingrandire)

La rivoluzione francese a Leinì

di Toni Balbo

Dalla corrispondenza di don Nicolò Ferrero, sacerdote leinicese vissuto nel periodo della Rivoluzione Francese, ho ricavato un episodio che ha interessato il nostro paese. Ve lo propongo con il corsivo liberamente tratto dalle lettere e alcune note di spiegazione.

Alla fine del XVIII secolo, a seguito della prima campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte, terminata con l’armistizio di Cherasco nel 1796, il Piemonte sta diventando una regione francese: i Savoia sono costretti a rifugiarsi in Sardegna, gli austriaci premono ai confini, nelle campagne regna il caos.

Nell’anno 7° in fiorile, stante la confusione del momento, il Municipio di Leynì mandò un suo uomo a Chivasso per cercare di ottenere informazioni circa la situazione generale.

Nota: la data è aprile-maggio 1799. Il capodanno dell’anno 1° della rivoluzione fu stabilita il 22 settembre 1792 – giorno di proclamazione della Repubblica francese.

Passando per Volpiano, il parroco lo fece arrestare e tradurre al Corpo di guardia. Vane furono le preghiere rivolte al parroco per ottenerne il rilascio, ma la Guardia, vedendo tanta ostinazione, lo lasciò tranquillamente ritornare a casa.

Nota: non si conosce il motivo dell’arresto, ma la Guardia, che evidentemente conosceva le “inclinazioni” del parroco di Volpiano, si rifiutò di trattenere l’uomo.

Lo stesso parroco un paio di giorni dopo andò, insieme a dei suoi sodali, a strappare lo stendardo dall’albero della libertà di Caselle. Lo legò alla coda del cavallo trascinandolo sulla via del ritorno.

Nota: un decreto della Rivoluzione imponeva di piantare nella piazza principale di ogni Comune, un palo addobbato, adorno di bandiere e sormontato dal berretto frigio rosso: “l’albero della libertà”.

I compari del parroco anticiparono ai leinicesi il passaggio di tale “processione” invitandoli, se volevano, ad arrestare pure il parroco di Volpiano “ch’egli volevano disfarsene”.

Nota: anche i compari erano stufi dell’intraprendenza del prelato.

La notizia provocò allarme nei leinicesi in quanto temevano che venissero incolpati del misfatto.
I gendarmi di Leynì misero in guardia la combriccola sulle possibili conseguenze della loro azione, ma li fecero comunque passare “senza verun insulto”.
Il sacerdote di Leynì, don Nicolò Ferrero, dovette poi recarsi presso il Comando di Torino, dal Generale Fiorella, convincendolo “che né a Leynì, né a Caselle, né a Volpiano vi era insurrezione”.

Nota: in questo modo viene scongiurato l’invio di una colonna di armati per ristabilire l’ordine.

Le conseguenze di tale azione portarono alla fucilazione, due anni dopo, nel 1801, dei compari del parroco di Volpiano e l’allontanamento di quest’ultimo per alcuni mesi. Non solo, il parroco diventò tanto inviso ai suoi parrocchiani che nel tempo pasquale i fedeli di Volpiano andavano a confessarsi a Leynì, a San Benigno o addirittura a Torino.
Ben dieci anni dopo, lo stesso parroco venne a celebrare messa a Leynì: don Ferrero saluta il collega, ma questi lo accoglie con delle smorfie, chi assiste alla scena osserva che si ricordava ancora dei fatti del 1799.

Come si mangiava a Leinì 105 anni fa

di Toni Balbo

Il 20 ottobre del 1913 si festeggiò a Leinì la ricorrenza del cinquantenario di fondazione dell’asilo infantile Vittorio Ferrero.
Nell’occasione fu offerto anche un pranzo del quale ci è pervenuto il menù, che riporto di seguito con alcune osservazioni:

Pranzo popolare
nella ricorrenza del Cinquantenario di Fondazione dell’Asilo Infantile Vittorio Ferrero in Leynì – 1863 – 1913.
Menu
Antipasto assortito
Minestra cappelletti al consommé con piselli
Fritto misto all’italiana
Filetto di Bue alla finanziera
Pollo (di prima nidiata) arrosto con insalata
Dolce
Dessert assortito
Vino: un litro per ciascun coperto e una bottiglia ogni 6
Auguri di buon appetito e piatto di buon umore
Leynì, 20 ottobre 1913.

Alcune osservazioni: intanto questo era un pranzo “popolare”, probabilmente per distinguerlo da quelli “aristocratici” di ben altra fattura. Si comincia con gli antipasti assortiti, immaginiamo come quelli attuali: affettati misti, peperoni con la bagna caoda, vitello tonnato, giardiniera, ecc.
Segue un primo, oggi improponibile, cappelletti in brodo con piselli, dove la pasta ripiena tradizionale, tipo raviolini o agnolotti, viene sostituita dai più “esotici” cappelletti. Vi lascio immaginare l’abbinamento con i piselli!
Si prosegue con i piatti forti in ordine di importanza: fritto misto all’italiana, non alla piemontese che è troppo provinciale, il filetto di bue con la finanziera, vera prelibatezza che oggi non mangerebbe più nessuno perché i buoi non esistono quasi più e la finanziera, fatta di frattaglie in carpione, farebbe ribrezzo a chiunque.
Ultimo piatto, il migliore, pollo arrosto novello (di prima nidiata) con insalata: niente a che vedere con i polli di oggi. Si trattava del famoso pollo al “babi”, pollo giovane, assolutamente ruspante, aperto e arrostito in casseruola. Io ho ancora avuto l’onore di consumarlo e, vi assicuro, non c’è filetto di bue che tenga!
Si termina con il dolce ed il dessert, che non sono la stessa cosa, ma con dessert si considerava la frutta secca e di stagione come fine pasto.
In quanto alle bevande l’acqua non è neanche menzionata, mentre il vino, generico ma abbondante, distinto in sfuso e imbottigliato, troneggia sovrano! Di caffè e “poussa cafè” neanche l’ombra.
In ultimo: gli auguri di buon appetito penso che fossero assolutamente superflui, mentre il “piatto di buon umore” non so se era solo metaforico o se invece si riferiva ad una portata reale.

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Il teatro a Leinì nel 1915

di Toni Balbo

In occasione dell’inaugurazione del restauro del porticato mercatale di piazza Vittorio Emanuele II, trasformato in locale polivalente, mi fa piacere ricordare che già in un’altra occasione il porticato fu adibito a teatro. Era il 1915 e fu realizzato dagli artigiani di Leinì affinché si tenessero delle rappresentazioni per la raccolta di fondi, in aiuto alle famiglie dei soldati impegnati nel conflitto bellico della prima guerra mondiale. Continua a leggere Il teatro a Leinì nel 1915

La maestrina dalla penna rossa

di Giacomo Robotti

Ho la fortuna e il privilegio di essere amico della scrittrice rivolese Bruna Bertolo che nella sua apprezzabile produzione letteraria annovera alcuni saggi, di carattere storico, sociologico e divulgativo, grazie ai quali si può leggere di personaggi femminili, più o meno noti, che per qualche specifica caratteristica personale, professionale, intellettuale, sociale o politica hanno rappresentato, con loro vite, a partire dall’unità d’Italia ad oggi dei modelli, dei prototipi, degli esempi. Leggendo, infatti, le vicende, le fortune o le disgrazie di queste donne possiamo vedere come la proteiforme personalità femminile abbia potuto esprimersi in un faticoso cammino di emancipazione, progresso, promozione politica e sociale nell’ambito e a favore della società in evoluzione in cui si è trovata ad operare.
Proprio nell’ultima fatica di Bruna Bertolo intitolata Maestre d’Italia, recentemente pubblicato per i tipi della NEOS EDIZIONI (Torino), ho incontrato un personaggio che potrebbe essere semplicemente il prodotto della fervida fantasia dello scrittore Edmondo De Amicis (1846-1908), ligure di nascita ma piemontese a pieno titolo, autore di quel successo letterario ed editoriale, uscito per la prima volta nell’ottobre del 1886, che è il romanzo (definito con qualche leggerezza, a me pare, per fanciulli) Cuore. Sto parlando della “maestrina dalla penna rossa” che, con le parole del diario dell’alunno Enrico Bottini, altro personaggio di questo romanzo, è stata così descritta:
la maestrina della prima inferiore, quella giovane col viso color di rosa, che ha due belle pozzette sulle guancie, e porta una gran penna rossa sul cappellino e una crocetta di vetro giallo appesa al collo. È sempre allegra, tien la classe allegra, sorride sempre, grida sempre con la sua voce argentina che par che canti, picchiando la bacchetta sul tavolino e battendo le mani per impor silenzio;…
Questo personaggio, però, era, nella vita reale, veramente esistito e si chiamava Eugenia Barruero, era nata nel 1859 ed era figlia di un avvocato. A diciotto anni aveva conseguito il diploma di maestra. Anche lei, dunque, si era infilata in quel varco che fu il primo lavoro intellettuale disponibile per le donne e per cui è passata una parte dell’emancipazione femminile attraverso l’assunzione di ruoli di responsabilità accompagnati da seppur tardivi e limitati riconoscimenti sociali. Durante i due anni di tirocinio che, a quel tempo, occorrevano ancora per iniziare la professione a pieno titolo, trascorse come insegnante supplente della prima inferiore (l’elementare di oggi) alla scuola Moncenisio, a Torino, che Ugo, il secondo figlio di De Amicis frequentava. Anche il primo figlio frequentava la stessa scuola nella terza inferiore. La maestra, che incontrò e conobbe il letterato, rimanendo in contatto cordiale fino alla di lui morte, lo ricorderà con immutata stima in una intervista rilasciata in tardissima età, nel 1950, a Bruno Segre.
Superato il tirocinio venne mandata a Volpiano dove insegnò per ben trentasei anni, tenendo la prima lezione il 15 ottobre 1886. In quegli anni le maestre erano pagate non dallo Stato ma direttamente dal Comune dove insegnavano. Anche allora i Comuni non nuotavano nell’oro e proprio per risparmiare preferivano assumere maestre piuttosto che maestri perché lo stipendio per le donne era, data l’innegabile iniquità che ha sempre caratterizzato il potere maschilista, di un terzo inferiore di quello maschile. Ancora oggi il 90% degli insegnanti di scuola primaria è donna! Sappiamo, dunque, dalle parole stesse della maestrina che concluse l’anno scolastico 1921-22 a Volpiano e poi insegnò ancora due anni prima del meritato pensionamento.
E ora la vera sorpresa per me e per voi: quale fu il paese dove la signorina (non si era mai sposata) Barruero insegnò per due anni scolastici (il 1922-23 e il 1923-24)? La risposta è: Leinì. Grazie al libro di Bruna Bertolo possiamo aggiungere un piccolo tassello al puzzle, ancora largamente incompleto, su avvenimenti e personaggi del passato leinicese. Non è senza un piccolo sentimento di piacevole e affettuosa emozione che mi figuro una triplice immagine sovrapposta: la maestrina dalla penna rossa così come immaginavo fosse quando leggevo il libro di De Amicis, la vera immagine di Eugenia Barruero e la maestra dei miei primi due anni di scuola nei lontani anni 50. Chissà se qualcuno è in grado di aggiungere qualche dettaglio o qualche notizia, storicamente attendibili, su quel breve periodo che trascorse a Leinì la maestrina che ha fatto sognare milioni di lettori di tanti paesi del mondo?

La mestrina della penna rossa, Eugenia Barruero, in età avanzata. Fonte: cortesia di Bruno Segre (dal giornale “L’incontro”) (clicca sopra per ingrandire)

La maestrina Eugenia Barruero: a lei la “Domenica del Corriere” dedicò la copertina nel momento della morte, celebrandola così come era ricordata nel libro Cuore, giovane e aperta verso i suoi allievi.