di Toni Balbo
Mi sono state recapitate alcune immagini di frammenti di laterizi che, a prima vista, possono essere attribuiti a tegole (embrici) romane. C’è anche l’immagine di un peso da telaio, che indica come in quell’insediamento si praticasse la tessitura. Niente paura, tranquilli, sono ritrovamenti comuni e normali, nessuna pompei leinicese (per ora).
Nelle nostre zone siamo abituati a considerare le coperture dei tetti con le tegole a forma di coppo.
I romani, invece, facevano le coperture con gli embrici e i coppi come nell’immagine.
Le due forme sono di origine molto antica, praticamente da quando si scoprì la cottura dell’argilla o terracotta e in molte zone vengono usate ancora oggi.
La seconda copertura era però una prerogativa della cultura romana che arrivò nelle nostre zone alcuni decenni prima di Cristo.
Ora, che siano state ritrovate delle tegole romane sul territorio di Leinì, indica senza alcun dubbio che i romani abitarono queste zone (come è stato descritto più volte dalla nostra Associazione).
Abbiamo anche ricostruito in modo particolareggiato la centuriazione del nostro Comune.
Questo recente ritrovamento conferma ancora una volta quanto già evidenziato da numerosi studiosi nel passato, ma che stenta ancora ad avere una risonanza più estesa. Peccato.
Uno dei reperti riporta impressa l’orma di un cane: questo dimostra che gli embrici formati in argilla fresca venivano fatti essiccare al sole, per diversi giorni, appoggiati per terra e qui inesorabilmente qualche animale li calpestava. Quando i laterizi erano asciutti, venivano cotti in fornace alla temperatura di circa 800 – 1000 gradi C.
A Leinì ricordo come la fornace Miglietti – Parigi fosse in attività ancora negli anni 1950/60 ed era situata in via Vauda prima della cascina Telegro ai confini con il Comune di Lombardore.
Oggi ci sono ancora alcune “bose”, laghetti formatisi a seguito dell’asportazione dell’argilla (tèra gras-sa), a testimonianza di quell’attività industriale.
L’argilla veniva scavata, caricata sui carri ribaltabili (tombarél) trainati da cavalli e muli, scaricata in grossi mucchi, inumidita, caricata nell’impastatrice meccanica, per renderla omogenea, estrusa in forma rettangolare, tagliata a misura di mattone con un filo di ferro, caricati a mano su carriole dagli operai che andavano a riporli in stretti e lunghi capanni a tre piani, riparati dal sole da coperture di canne palustri e lì lasciati ad asciugare prima della cottura. Un lavoraccio! Ma non era finita. I mattoni venivano tutti i giorni rigirati per una asciugatura uniforme. Dopo diversi giorni i mattoni asciutti venivano ripresi e sempre con le carriole portati all’imbocco della fornace, posti sul nastro trasportatore di rete di ferro che li portava all’interno della fornace.
Io ero un bambino e me la ricordo ancora oggi quella fornace! L’inferno che i catechisti dicevano che esistesse, io me l’immaginavo proprio così come vedevo la fornace: una grande cupola fatta di mattoni rossi di colore e di calore, con cunicoli laterali dai quali uscivano le fiamme e al centro il nastro che scorreva lento pieno di mattoni come se fossero anime penitenti!
I mattoni uscivano poi dalla fornace e, ancora caldi che bruciavano, caricati a mani nude sui carri o sui primi camion e trasportati nei cantieri dove arrivavano quasi freddi.
In quegli anni l’attività edilizia era così frenetica che i mattoni non avevano neanche il tempo di raffreddarsi che erano già posti in opera!
La fabbricazione dei laterizi era in quel periodo già in gran parte meccanizzata, immaginatevi come doveva essere quel lavoro al tempo dei romani più di duemila anni fa!
Eppure una ventina di secoli fa a Leinì si fabbricavano già mattoni, ed era un enorme progresso vivere in case di mattoni rispetto alle fredde e fumose capanne fatte con fascine di paglia che s’incendiavano per un nonnulla!
In un recente lavoro della associazione La Barbacana su quel periodo si conclude che:
– il territorio di Leinì era già stabilmente abitato e con una certa organizzazione sociale a partire da alcuni decenni prima di Cristo;
– l’abitato del paese è sorto, con probabilità, nella zona di via Matteotti – vicolo Solferino, collegato anche con il Chiosso e la zona della parrocchia;
– le abitazioni sparse su tutto il territorio erano collegate fra di loro da una fitta viabilità;
– la strada principale, via Volpiano – via Caselle Vecchia, era una importante arteria che collegava il ciriacese e le valli di Lanzo con Chivasso e il navigabile fiume Po;
– questo luogo, a partire dal 3° – 4° secolo d.C., aveva anche un nome: laetonicus o ledonico, dove abitavano i laeti.